giovedì 26 febbraio 2009

Donne dei gatti

"La gattara è, era, una figura del limite, che si muoveva ai bordi della civiltà, nelle nicchie, negli angoli rimasti un po' selvaggi,
dove vive
l'antico popolo dei gatti di Italo Calvino.
I gatti e la gattara stessa possono essere interpretati come il selvatico residuale che sopravvive nelle città, personaggi un po' di frontiera.
Una selvaticità che negli ultimi anni è in corso di domesticazione".













Nascosto nel post precedente come un gatto infrattato, c'è un link ad un bel saggetto di Anna Mannucci dal curioso titolo di La donna dei gatti : dalla gattara anomica alla tutor della legge 281 [*]. Lo riposto qui, consigliandone caldamente la lettura alle/agli amanti dei gatti: son solo 19 pagine, figure incluse.
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Ok, ok, vi faccio un riassuntino :)

§ § §

C'era una volta il randagismo.
E c'era una volta anche la lotta al randagismo -rivolta principalmente ai cani- che consisteva nell'accalappiare gli animali, portarli al canile, attendere tre giorni e poi sopprimerli, gasandoli.
Questo è quanto avveniva in Italia, sino al 1991.

Nel 1991, in materia di "animali di affezione e prevenzione del randagismo" arriva la legge 281, che muta radicalmente la prospettiva: è vietato sopprimere i cani rinvenuti vaganti, è vietato maltrattare i gatti che vivono in libertà, il nuovo metodo per controllare le loro popolazioni non è più la soppressione bensì la limitazione delle nascite.
Una legge di civiltà che a volte gli animalisti -mutatis mutandis- paragonano alle grandi leggi di riforma degli anni '70 (statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, sanità) ed in particolare alla legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi: "problemi" non più occultati e rimossi, ma "accolti" nella società. Poi uno legge di medici invitati alla delazione e questa della società accogliente sembra una fiaba scritta due bilioni di anni fa (ma non divaghiamo).


Rabat


Haifa

"Seguendo le gattare nei loro giri
si vedono sempre i gatti che le aspettano
nel posto e nell'ora giusta"


Gattare: bizzarre ladies -benefattrici, squilibrate o perditempo?- che spontaneamente si occupano dei gatti randagi. Vi sarà capitato di vederle all'opera, o magari di conoscerne una: in Italia è un fenomeno tipicamente urbano, ed è/era una figura anch'essa un po' randagia, marginale, di confine, in passato sempre in conflitto quasi paranoico con le istituzioni, il vicinato ed i geometri dei cantieri ("sono tutti contro di me"). Il suo imperativo categorico di base è: dar da mangiare agli affamati. Il numero dei gatti che sfama può variare da tre a molte decine, o centinaia: un impegno che richiede organizzazione, spese, orari fissi (perché "i gatti lo sanno e aspettano") e che non concede vacanze. Una missione che -nelle parole delle gattare intervistate- è sofferenza; un dovere, un obbligo morale al quale non ci si può sottrarre. Una figura tragica, quella della gattara: c'è chi l'ha accostata -addirittura- ad Antigone.
Uno dei compiti più tragici che questa donna si assumeva, in passato, era quello di uccidere i gattini -in particolare le gattine- neonati, prima che aprissero gli occhi, quasi sempre affogandoli.
La si nomina al femminile perché -praticamente sempre- è donna. Sino ad una ventina di anni fa dare della "gattara" ad una donna era un insulto bello e buono: lo stereotipo la voleva infatti "vecchia, brutta, zitella, sola, povera, emarginata, di cattivo carattere e scarsa pulizia". E forse un po' strega.


Creta

"I gatti chiamano, anche senza miagolare, e la gattara va,
con i suoi piattini di cibo,
che qualcuno potrebbe interpretare come offerte propiziatorie.
Non rispondere a quel richiamo per lei è impossibile."



California


Con la legge 281 il gatto "randagio" italiano diventa gatto "libero".
La 281 ha alcune lacune: non specifica a chi competa la cattura dei gatti, chi li debba portare in ambulatorio per la sterilizzazione, chi ne curi la degenza post-operatoria. Ma, di fatto, la cattura non traumatica dei mici può avvenire soltanto con la collaborazione dell'unica persona in grado di avvicinare le colonie dei liberi felini: la gattara. Un riconoscimento di ruolo sociale che l'ha lentamente riscattata dall'emarginazione.
La gattara selvaggia è perciò andata addomesticandosi, sino ad evolvere in gattara istituzionalizzata. Ora è infatti la "responsabile di colonia felina", in qualche caso munita di patentino comunale, che si rapporta con istituzioni, veterinari, Asl e che -all'occorrenza- sa maneggiare leggi, ricorsi e petizioni: un'intensa attività sociale.
Non più conflitto, ma negoziazione: "la gattara ora ha la legge dalla sua e lo sa. La 281 è citata ripetutamente, come un litania, come un mantra".



Singapore


Il termine "gattara" ha oggi perso ogni accezione negativa: dall'impotenza di un tempo si è passati all'orgoglio gattaro.
Nel 1995 i veterinari veneziani hanno ufficialmente definito il gatto come "arredo urbano", e la gattara come "tutor".
A Roma è in vigore il decalogo comunale dell'ecogattara: una serie di "regole che vogliono mettere ordine ad un'attività di base assolutamente irrazionale, un tentativo di governare le passioni".

"Antigone, insomma, è diventata una funzionaria statale".


La situazione dei gatti, complessivamente, è ormai molto migliorata.
La signora I.A., milanese, settantenne, combattiva ex-gattara, ha perciò deciso di diventare piccionara :-)

§ § §

[*] Il saggio è comparso su La ricerca folklorica n. 48, ottobre 2003, ed è online grazie a Sandro Zucchi, docente alla Statale di Milano responsabile del "Seminario permanente su etica e animalismo" e di Quilp, il blog del seminario.

Le citazioni dal saggio sono in corsivo.

Foto da Flickr (5 credits su 6 nelle dida, autore della gattara californiana cercasi).


martedì 17 febbraio 2009

Febbraio gattaio

Novembre 2006, sala d'attesa del veterinario.

Equipaje (incerta): Siamo sicuri che sia femmina? La prendo solo se è femmina.
Veterinario (risentito): Vuole che non sappia distinguere un gatto maschio da una femmina?
Sciura in attesa (entusiasta): Ma certo che è femmina, non vede che musetto sottomesso e seduttivo?

A tre mesi

Dieci giorni dopo, il musetto sottomesso e seduttivo aveva già provveduto a svasare il mio Ficus benjamina e la mia Dracaena, nonché a sterminare l'unico capelvenere che fossi mai riuscita a far crescere in casa. Ed esibiva un magnifico paio di attributi maschili.

Con l'inganno: così Griffe si è intrufolato nella mia vita. Una vita che in breve è diventata un susseguirsi di divani stracciati, agguati a tradimento, stendipanni che crollano a terra con tutto il bucato, assi da stiro che si schiantano rovinosamente nel cuore della notte, casse del PC spinte nel vuoto da due zampette in vena di stiracchiamento.
Non esagerare con gli strilli, è un gattino traumatizzato!
E che dire di me.

Su uno dei cedri

Quando Griffe ha iniziato ad uscire in giardino, il giardino ha iniziato ad entrare in casa: gatti amici, passeri, cavallette (una vera passione, queste ultime), terra ovunque.

A dieci mesi -il giardino ormai troppo angusto per lui- è finito sotto una macchina. Salvataggio, operazione, ritorno a casa (vet.: Questo gatto deve stare immobile per due mesi!), fuga sui tetti bendato e sotto anestesia, affissioni, promesse di ricompensa, acquisto di un box per infanti al mercatino delle pulci per ingabbiarlo, amorevoli cure, un intero stipendio (e d'accordo che il mio stipendio fa ridere, ma insomma).

"Immobile per due mesi!"

Domenica 8 febbraio u.s., portato in montagna e costretto a stare in casa perché il posto gli era sconosciuto, ha deciso di non tollerare l'ignominiosa prigionìa (due giorni) e si è buttato dal balcone scomparendo nella notte e nella neve. Giorno di ferie, giri infiniti per il paese, affissioni, promesse di ricompensa. Ma questa volta: nulla di nulla. Cinque giorni: nessuna telefonata.
Poco rassegnata a darlo per perso, venerdì ritorno a cercarlo.

Ben lontano dal punto in cui si era paracadutato, trovo una statua bianca perfettamente mimetizzata sulla neve. Stava lì: piazzato nel mezzo di un giardino, smagrito ma sordo ai richiami e finanche ai crocchini agitati, con lo sguardo spiritato fisso su una cascina abitata esclusivamente da gatti (e gatte) dove -secondo il contadino che l'ha scovato- cerca di entrare da giorni, senza successo.
E lo capisco: un conto è perdersi in mezzo alle macchine e al traffico cittadino, altro è perdersi in loco montagnoso e trovarsi davanti all'improvviso, in mezzo alla neve, una comune di gatti e gatte liberi, fieri e bellissimi. Una novella Shangri-La, deve essergli sembrata. E lui stava lì: affatato, sedotto, stordito dai feromoni.
Siamo proprio certi che volesse essere salvato?

Se a Genova si usa l'espressione innamorato come un gatto a febbraio, un motivo ci deve pur essere. Fa ancora freddissimo, forse nevicherà ancora, ma più ancora delle prime gemme e dei narcisi che bucano il terreno sono i gatti in amore a febbraio il segnale certo dell'inverno che inizia -pian piano- a cedere.

Ho poi riportato a casa il ribaldo, che ha dormito per due giorni filati.

Nel(l'ex) cestino del pane.

Non so mica quanto dura, 'sto micio: ha solo due anni e mezzo e si è già giocato almeno due delle sue sette vite. Io volevo una femmina! Sì, dovrei farlo castrare, lo so: ma più passa il tempo, meno mi decido. E poi sì, non ditemi nulla: lo so, lo so, questi sono post da occidentale senza soverchi problemi di sussistenza, son ben altre le cose, "è solo una bestia", eccetera, eccetera. Epperò, epperò.

Sua Scompostezza al PC

Ancora qualche anno e poi, come tutor dei gatti liberi, io mi ci vedo benone :D

(Oggi è il suo giorno: un post glielo dovevo proprio, dài).

mercoledì 4 febbraio 2009

Qui in Patagonia (Varese e dintorni)















Come dicevo, in giardino io non ce l'ho.
Ma nel Varesotto è parte integrante del paesaggio, è *la* pianta del giardino/giardinetto anni '60. Così astratta, così stilizzata: più che una pianta, un barboncino. Tosato, però.

Che non sia una bellezza mozzafiato lo diceva persino Neruda, che pure in mezzo alle sue foreste c'era nato: no por bella te canto ("se ti celebro non è certo perché sei carina").

E' originaria del Cile come sostengono tutti (chi fu a diffonderla, chi fu il primo a portarla qui?) oppure era già a Varese duecento milioni di anni fa (come si sostiene in questo articolo di Repubblica-Scienze)? Mmm.
Sta di fatto che, nel dopoguerra, qui in zona piacque davvero parecchio: perché cresce quasi ovunque in Italia, ma in nessun altro luogo ha mai raggiunto una simile concentrazione.

Il disegno della sua "chioma di fil di ferro" le dà un'apparenza finta, disegnata: un'eleganza forse agli antipodi di quel mondo contadino che non si vedeva l'ora di lasciarsi -una volta per tutte- alle spalle. Sporca così poco da essere quasi al confine con l'artificiale: è il Monkey Puzzle Tree, il rompicapo della scimmia, l'Araucaria araucana.

Strobili di Araucaria araucana femmina

La rigida villetta varesina ama il rigido pratino all'inglese con nel mezzo due rigidi "arredi": la camelia e l'araucaria.
Un po' ostentazione un po' esorcismo l'araucaria è dunque lì: piazzata davanti alle palazzine, alle villette, alle villone. Ovunque!







Nel 2003-2004 l'Araucaria araucana rischiò di infliggere un duro colpo al cuore ed al portafoglio dei varesini: venne infatti inclusa tra le specie protette dalla convenzione CITES. Da quel momento averne una in giardino comporta(va?) -teoricamente- obbligo di denuncia al Corpo Forestale dello Stato, una tassa di possesso, una salatissima multa per la mancata denuncia.
Leggere per credere (giuro, non l'ho scritto io):

Varese, 7 aprile 2004

Mi scuso per l’anonimato, ma si addice a chi, come me, è costretto alla clandestinità. Ieri ho scoperto di essere un fuorilegge perché ospito un “irregolare”. Si tratta di un “cittadino” di origine extracomunitaria sebbene nato in Italia: un esemplare di Araucaria Araucana. Di che si tratta? Di uno di quei “pini con le spine” la cui presenza è alquanto frequente nei giardini varesini. Non ne ho favorito “l’immigrazione”, l’ho ereditata con tutto il giardino annesso alla mia abitazione. I “rei” sono i miei defunti genitori, che circa quaranta anni fa la ritennero graziosa e, dopo l’acquisto presso un vivaio locale (il Sud America, da cui origina la specie, era al di là delle loro idee e disponibilità), la misero a dimora nel loro fazzoletto di terra (ma perché non scelsero una betulla!).

State per abbandonare la lettura dandomi del folle?
Un attimo ancora e vi sarà tutto chiaro. Intanto vi suggerisco di verificare se in giardino avete anche voi un extracomunitario di tal fatta, nel caso covereste una serpe in seno. Negli anni settanta, l’Italia ha aderito alla convenzione Cites di Washington contro il commercio di specie animali (antilopi, zebre, leoni, ecc.) e vegetali (l’
Araucaria allora no!) minacciate di estinzione (“endangered species”) [...] Non avendo denunciato per “ignorantia legis” la mia zebra, pardon pianta, la stessa è caduta nel limbo degli irregolari. [...]

Udite udite: salvo che il fatto non costituisca reato (su questo penso di stare tranquillo, non è canapa, non si fuma, non si spaccia, non si inietta dopo averla scaldata con un cucchiaino, non si trova nelle discoteche, ma qui non si può essere certi di nulla) è prevista una sanzione amministrativa da 6.000.000 a 18.000.000 di vecchie lire. A conti fatti, applicando note regole per pagamenti oblatori (1/3 del massimo) solo 3.000 euro [...]. La sanzione è per la mera detenzione irregolare e non per l’abbattimento, il taglio o danneggiamenti. A oggi dunque la gazzella, pardon pianta, si è trasformata in un pernicioso extracomunitario assetato di soldi. Prima che mi venga in mente di “eradicare” il problema in un eccesso di xeno-fito-fobia, e prima che si formino nuclei di “detentori” organizzati sul modello del ku-klux-klan armati di motoseghe, acqua calda e sale et similia [...] (la spassosa lettura prosegue qui)


Bravissimo Cat! Sono otto etti di pigne, che faccio? Le incarto? :D

lunedì 2 febbraio 2009

Cime tempestose

Ci son gli olivi di Palestina, i tigli di Berlino, i ciliegi di Kyoto, le palme di Marrakesh. E poi i pioppi di Fort Alamo, gli alberi del pane del Bounty, i platani di Haendel, i salici di Quasimodo, le querce di Albion.
Noi, qui, nel nostro piccolo, abbiamo i cedri del Buen Retiro.
Paiono lì da sempre, ma non è così.

Strobilo di Cedrus deodara


La parte più vecchia della casa dove vivo è del 1929. Appena costruita ci vennero a stare nonno, nonna e i loro sette figli: mio padre, nato nel 1919, era uno dei più piccoli. Poi i figli crebbero: le femmine si sposarono ed andarono via, i maschi restarono qui. La casa raddoppiò, ne vennero quattro appartamenti per altrettanti nuclei familiari. Nel giardino, equamente suddiviso tra fratelli, c'erano gli orti e qualche pianta da frutto.
Poi vennero gli anni del miracolo economico, gli zii si fecero le villette, mio padre comperò le loro quote di casa. La fine degli anni '60 colse mia madre impegnata a coniugare il giardino secondo gli stilemi del suo nuovo status piccolo borghese: prima via gli orti, poi pian piano via tutte le piante che fanno sporco -il fico e il cachi prima, la vite e l'albicocco poi. L'operazione "salotto di rappresentanza" perfettamente asettico, era iniziata: dentro le edere e le salvie splendenti e, soprattutto, dentro le conifere: che' la conifera teoricamente non spoglia e non sporca ed è quindi pianta sommamente gradita alla Grande Madre Massaia Mediterranea (GMMM). Io sotto sotto ne sono sempre stata un po' persuasa: per riuscire a tratteggiare così genialmente la filosofia del "giardino da GMMM", Ippolito Pizzetti deve per forza aver conosciuto mia madre in qualche strana occasione, forse prendeva appunti ben nascosto dietro un cipresso mentre lei armeggiava in giardino.

Qui nel Buen Retiro -che, si badi, non è mica il Bois de Boulogne- di conifere al momento ce ne sono "solo" cinque, e tre di queste sono cedri Deodara alti forse venti metri.

Cedrus deodara


Questo è successo qui, a casa dei miei. Ma nelle vicinanze la storia è ovunque la stessa: se cerco i cedri del Buen Retiro su Google Maps (si vedono perfettamente) li trovo annegati nell'oceano di conifere dei giardini e giardinetti circostanti: tra l'Alto Milanese ed il Basso Varesotto la conifera impera ovunque senza serî concorrenti. Senza concorrenti, sì: perché provateci voi, a far crescere qualcosa sotto i pini, o a fare il compost con gli aghi di pino. Ordinato ed asettico, antisettico ed antibiotico: questo è il Giardino della GMMM.

Cedrus deodara


(Ma tutto sommato i miei li devo ringraziare: che' nella loro foga di ricreare un angolo di Himalaya evitarono perlomeno d'impiantare l'albero che negli anni '60 andava per la maggiore qui in zona, l'innominabile cosa là. Almeno quello, per fortuna, manca.)

(continua?)